Dare la caccia al consenso, non ai criminali: le armi come arma politica.

“Mi dispiace, ma anche se sono passati due anni, per me è come se non fossero passati neanche due secondi. La ringrazio. Distinti saluti, GERARDO BOTTI”.
[dropcap type=”1″]G[/dropcap]erardo Botti è un gioielliere di Vallo della Lucania, in provincia di Salerno. La sera della vigilia di Ferragosto del 2013 suo figlio Luca, 13 anni, si trova nella camera da letto della casa delle vacanze. Apre l’armadio ed estrae una magnum 357, detenuta legalmente dal padre per paura di essere rapinato. Probabilmente lo fa per gioco. Parte un colpo. Luca muore trafitto alla tempia.

Quella riga e mezza scritta da Gerardo Botti è una cortese risposta ad una mia richiesta di intervista. Volevo sentire quella voce per capire quale dimensione può assumere il rovescio della medaglia della scelta di ricorrere alla detenzione di un’arma come modalità di difesa. Di per sé, quella riga e mezzo basta e avanza per capire la dimensione di un black out totale.

Lo stesso black out che vige sostanzialmente sul tema del ‘fuoco amico’. Negli USA il presidente Obama ha dato queste cifre per il 2013: 33.169 morti a causa delle armi. Nel dettaglio sono 11.203 omicidi, 21.175 suicidi, 505 incidenti e 281 decessi con motivazioni ancora incerte. Nessun Isis ha mai compiuto, nel cosiddetto Occidente, una strage di queste dimensioni.

Eppure, il mix 2015, costituito da migrazioni bibliche+fatti gravi di terrorismo ha portato al dominio della doppia equazione immigrati=criminalità e musulmani=terrorismo, infarcendo, anche qui da noi, i contenuti politici di incitamento all’armamento e alla militarizzazione fai-da-te. Sul ‘fuoco amico’ invece si tace e si acconsente. Come se lo si considerasse effetto collaterale accettabile. Di fatto accettato.

La politica, certo, ha le sue armi: la persuasione, la retorica, la polemica, la demagogia. Tutte armi con le quali il politico va a caccia di consenso. Mai però come in questo periodo siamo circondati da una politica che usa, persino fisicamente, le armi come arma politica.

EPP Group Study Days in Palermo. Giovanni La Via MEP (on the right) and Sergio Berlato MEP (both EPP Group, Italy)

Dalla pistola esibita in tv dal leghista Buonanno e usata come protesi della sua verga di celodurista memoria, fino ai proclami in Consiglio regionale del Veneto da parte del leader dei cacciatori, Sergio Berlato (Fratelli d’Italia), che fa approvare una mozione sulla legittima difesa, rivendicando orgoglioso:

[quote_colored name=”” icon_quote=”no”]Ho una beretta 921 da 15 colpi e lo dico tra il serio e il faceto: spero che non siano più di 13 i malviventi che decidono di entrare a casa mia perché i colpi che mi restano sono per i feriti. Ammesso che ce ne siano’.[/quote_colored]

Difficile, di fronte a gesti e parole di tale portata, non considerare questi politici come i mandanti di ‘eroi’ assassini come il benzinaio Stacchio o come Sicignano, il pensionato di Vaprio d’Adda. Tutti eroi con licenza di uccidere perché ‘esasperati’, ‘indifesi’. E da chi, se non dagli stessi politici che da almeno un paio di decenni si stracciano le vesti per la sicurezza?

Difficile non definire questi ideologi della violenza, camuffata da legittima difesa, da civismo del presidio territoriale e da buonismo eroico, come ‘cattivi maestri’. Esattamente alla stregua di quei cattivi maestri, ideologi delle bande armate negli anni di piombo.

Bande che possono prendere corpo nelle forme più svariate. Ad esempio l’altra notte, a San Giorgio delle Pertiche nel padovano, una banda di cacciatori fuorilegge di nutrie si è improvvisamente travestita da teste di cuoio. Hanno sentenziato che fossero criminali, e non due fidanzati che avevano voglia di appartarsi, quei due ragazzi che hanno impallinato. 10 pallettoni innocui, si intende: hanno solo mandato in frantumi il lunotto posteriore dell’auto e spedito il ragazzo a farsi curare per 40 giorni. Roba da tentato omicidio: in nome della sicurezza, si intende.

Sono follie che, assieme ai loro autori ed ispiratori, vanno fermate. L’unico modo è quello di rifiutarsi in modo netto di farsi difendere da questa politica e, anzi, di pensare a difendersene. Perché chi fa politica usando le armi, rivendicandole, sbandierandole, incitandone l’uso indiscriminato, mi garantisce una forma di sicurezza che è della stessa natura di chi delinque.

Questa non è vita sicura. Così come non lo è il vivere immersi in un presepe propagandistico vivente come quello di una piazza presidiata da uomini in assetto da guerriglia che imbracciano mitra in formato gigante. Questi sono spot promozionali di un polpettone natalizio, infarcito con ingredienti di anticrimine+antiterrorismo e confezionato da politici che, per pura speculazione politica, si nutrono in realtà di criminalità e di terrorismo.

Mi sento tremendamente insicuro, senza protezione. Orfano di chi dovrebbe produrre un pensiero politico alternativo all’armamento, di chi dovrebbe denunciare il ‘fuoco amico’, di chi dovrebbe dire che armi e sicurezza sono terreni inviolabili, di chi dovrebbe far di tutto per garantire che questi terreni rimangano ad esclusiva competenza di chi ha potere e professionalità per farlo. Senza inutili spettacoli e spot.

Sento invece solo le flebili voci di chi ben sa che più di tanto non conviene alzare la voce. Perché l’aria che tira, in questo orribile 2015, va più che mai da un’altra parte e perché ciò che conta davvero è dare la caccia al consenso. Non ai criminali.

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