“Mother!” di Aronofsky

D. Aronofsky torna nelle sale con thriller delirante dal sapore grottesco.

Foto da Venezia di Alessio Costantino

Aronofsky, già premiato esageratamente con un Leone D’oro per The wrestler nel 2008, arriva a Venezia’74 con “mother!” e viene accolto da una pioggia di critiche, del tutto opportune.

La storia, in cui si evidenziano diverse allegorie bibliche mal gestite fin dal principio, narra di una coppia (Bardem e Lawrence) che sta restaurando la vecchia casa isolata di lui, bruciata in un misterioso incendio.

Già dai primi minuti disturba l’uso incontrollato del sonoro che viola le più elementari regole di relazione tra suono e immagine, proponendo allo spettatore un continuum ininterrotto per l’intera durata del film di respiri affannosi, chiavi che cadono e porte che sbattono, in poche parole:
la creazione di una fonte sonora molto realistica senza che ci siano altrettanto vere motivazioni narrative per farlo e – dato l’uso massiccio- le immagini perdono di forza man mano che scorrono i minuti.

Ma torniamo alla trama: la vita della coppia (il regista non ci indica mai i loro nomi) appare già tormentata per diversi motivi ed in particolare dalla mancanza d’ispirazione di lui, poeta in crisi, a cui lei cerca di ovviare offrendogli il suo amore incondizionato. La ragazzina carina acqua e sapone sposata con lo scrittore tormentato vent’anni più vecchio di lei e con ridicoli tratti di ascetica onnipotenza: patetico e ridicolo allo stesso tempo.

All’improvviso una notte con la scusa che la casa della coppia sia un bed and breakfast (si certo, una casa che cade a pezzi in mezzo ad una radura nel nulla) irrompe Ed Harris seguito a ruota dall’invasiva moglie Michelle Pfeiffer dando inizio allo sviluppo di uno dei temi principali della pellicola ovvero l’intrusione, sia psicologica che fisica. In men che non si dica, Bardem si ritrova ad aiutare l’ospite inatteso a vomitare nudo in bagno in preda ad una sorta di collasso polmonare. E lei? Immobile ed ammutolita, come del resto per quasi tutta la durata del film.

Da questo punto in poi si scatena un’esplosione di avvenimenti senza senso, né drammaturgico né estetico, che partono dalla citazione Polanskiana di Rosmary’s Baby e proseguono in un baratro profondo di violenza ingiustificata ai fini della narrazione, una traboccante unione di tematiche forti come il senso della vita, la possessione, l’egotismo, il fanatismo e via dicendo che non vengono affatto sviluppate dal regista, ma sono lo sfondo di immagini raccapriccianti soprattutto nella lunghezza – ingiustificata – di alcune scene brutali che si spera solo finiscano in fretta.

Jennifer Laurence appunto la madre il cui personaggio è fatto solo di affanni e ansimi, rimane incinta come sperava ma nemmeno questo è sufficiente per avere il suo uomo “ solo per sè”; i fanatici seguaci del marito (quelli che noi chiameremmo “fan” ma qui assumono connotati del tutto diversi ) per la seconda volta distruggono la casa e compiono azioni ingiustificabili, permesse da Bardem, pienamente accecato dalla vanagloria in seguito alla pubblicazione del suo nuovo racconto. Lei sempre zitta attonita; l’espressione fissa e inerte rimane anche dopo aver visto nella tazza del water un groviglio sanguinolento arrivato da chissà dove e lei, in vestito da sera, continua a preparare una cenetta per festeggiare il marito che ha scritto una nuova opera – sfidando le leggi dell’editoria – che vende milioni di copie senza essere stata nemmeno pubblicata.

Anche l’uso della cinepresa disturba, usata (o abusata) per la creazione di ininterrotti primi piani e cambi di inquadratura da far girare la testa.

Un film che all’inizio infastidisce e prosegue diventando sempre più intollerabile ponendo lo spettatore nel dubbio se andarsene o rimanere per soddisfare la curiosità di vedere come va a finire tanta supponenza registica.

Aronofsky racconta di aver scritto mother! In 5 giorni… meno male che al sesto si è fermato.

 

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