ROOM 429

Photos by Michele Michelsanti

Born in Umbria (IT) in 1985, he studied photography at the Italian Academy of Fashion and Design in Florence. Based in Florence, he works as photographer. Using a 35mm camera, no airbrushing or elaborate lighting, he shoot to feed his voyeuristic urge of images.

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(English version coming soon)

FUCK FAKE BEAUTY C’è un uomo in una stanza d’albergo. É un adulto, vestito da adulto. C’è uno sguardo impietoso su un volto sfatto di stanchezza. C’è la ricerca della verità. No, di una verità tra le tante. Perché il voyeurismo del fotografo – tutti i fotografi lo sono, tutti guardano in camera come in un peep-hole erotico – indugia e indaga con insistenza sulla ruga, la pancia, la (s)gradevolezza di una persona che è anche personaggio. Come in Nan Goldin, Terry Richardson, Ryan McGinley, Wolfang Tillmans la crudezza delle immagini si accompagna a un sentimento di complicità con il soggetto. Esaltando una teatralizzazione dove la recita è fingere la realtà. Ma di quale realtà parliamo? Di quella fenomenica? O di quella noumenica, kantianamente parlando? Nessuna delle due. Queste immagini sono messaggere di una ribellione al concetto di “bella” foto. La narrazione che si esprime negli scatti di Michele Michelsanti, e del suo lavoro snapshotistico, accoglie infatti la dimensione di un racconto – il surrealismo delle pose posatissime come contraltare all’istintivo, iniziale moto di (dis)gusto nei confronti del soggetto – che contiene i germi di una contestazione. In questo mondo dove “fare” fotografie è alla portata di tutti, dai cellulari alle macchine digitali a pochissimo prezzo, e Photoshop è un accessorio presente su ogni desktop del pianeta, si impone l’assurda pretesa di voler realizzare immagini “armoniose”. Armoniose rispetto all’omologazione imperante di una piacevolezza scontata e deprimente, fata di superfici superficiali, asettiche, che non lasciano tracce né segni nell’animo di chi osserva. In questo senso, racconto + contestazione + critica sociale danno come somma un’alta gradazione morale che condanna senza mezzi termini un consumo di immagini che viaggiano in un flusso continuo di epidermica inutilità. Come se oggi la forma d’avanguardia più estrema ed estremista sia contenuta nell’analogico e non nel digitale, nella stampa su carta anziché su byte, nel rullino della pellicola al posto della scheda, nell’occhio semichiuso di una faccia gonfia di sonno.
Siccome sono “morali”, questi ritratti brutti diventano manifestazioni contro una visione che uniforma, pialla, smeriglia, appiattisce. E si trasformano in manifesto politico, come segno che il bello non può avere una sola faccia, che il compito del fotografo sarebbe documentare ciò che vede e non ciò che si pensa gli altri si aspettino di vedere. Michelsanti, in un formidabile gioco di prestigio, parte dagli “scarti” e li trasforma in pepite visive di rara sensibilità, partendo dall’immagine casuale, della “street pic” dilettantesca per costruire un proprio discorso che invita a guardare oltre. Ma non s’illuda chi pensa che in queste immagini non ci sia trucco, non ci sia inganno. Ciò che appare, non possiamo conoscerlo davvero. E la spontaneità è un’utopia che è sepolta da tempo. La sostanza, ciò che rimane, il deposito retinico è una riflessione su ciò che non è “regolare”. Mandare a farsi fottere la falsa amabilità spalmata sulle immagini che vediamo ogni giorno. Elogio dello scarto dalla norma, dell’errore calcolato, dello sbaglio voluto e ottenuto con grande sforzo e grande costruzione. Il procedimento si conclude con valutazioni che possiedono un loro status universale. Anche se l’estetica della fotografia deve, per forza di cose, rimandare al singolo.

N. B. Quel singolo è Michelsanti, quel singolo sono anch’io, che a Firenze ho dormito per tre notti nella stanza 429 e mi sono affidato a Michele come a uno psicoterapeuta. Ma non sono innocente, anche se ho faticato a guardare il mio viso sotto la doccia. «Davanti all’obiettivo io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte». ( Roland Barthes, La camera chiara). Michele, ci siamo serviti l’uno dell’altro, e lo sai. Ma per parlare a tutti. O no? Non abbiamo risposte definitive, né lezioni da dare. Ma almeno offriamo la possbilità di un’occhiata diversa.
Antonio Mancinelli*, 2013.

Antonio Mancinelli è caporedattore attualità di Marie Claire.

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