Brawl in cell block 99 di S. Craig Zahler

Un viaggio nella violenza verso il blocco 99, raccontato da un regista che non risparmia nulla ai propri eroi giusti e ligi.

In collaborazione con BadTaste.it,

Recensione di Gabriele Niola, foto da Venezia di Alessio Costantino

Nel mondo di S. Craig Zahler, quello in cui alle persone rigorose, con un codice e fedeli a se stessi le cose non vanno mai bene, uno spacciatore viene beccato, finisce in carcere nonostante abbia difeso la polizia dai criminali con cui faceva l’affare e qualcuno minaccia di morte sua moglie e il figlio che ha in grembo. Perché non amputino gli arti al feto (uno specialista in aborti coreano sostiene di saperlo fare) deve farsi trasferire in un carcere di massima sicurezza e lì nel blocco 99, quello per psicotici e stupratori, tutto per uccidere un tale. Inizia così il suo viaggio nella violenza per farsi trasferire e andare a stare sempre peggio. Sempre peggio, fino all’inferno. E l’invenzione di cosa sia il blocco 99 è geniale.

Non è molto diverso dal viaggio del gruppo che in Bone Tomahawk andava a riprendere una moglie da un branco di indiani cannibali, veri e propri mostri combattuti da uno sceriffo integerrimo e un manipolo di coraggiosi. Qui è un uomo solo, una montagna umana, montagna di muscoli e rigore, a compiere l’impresa tempestata di ossa spaccate (una vera fissazione di Zahler). Purtroppo questo è anche l’unico problema del film: Vince Vaughn, considerato da tutti una montagna e in grado di fare quel che fa una montagna ma mai credibile come montagna, mai degno della presenza di un Ving Rhames o un Vincent D’Onofrio.


Lo stesso, questo film che confina con lo splatter conferma tutto quello che di buono si era visto in Bone Tomahawk secondo un meccanismo impeccabile, un continuo rilancio del peggioramento delle condizioni del protagonista. Zahler ha una capacità di immaginare situazioni che è tarantiniana e possiede anche lo stesso gusto per i personaggi sopra le righe e i dettagli memorabili (qui il protagonista è rasato con una gigantesca croce sul retro del cranio). Il direttore del carcere di massima sicurezza di Don Johnson sembra uscito Kill Bill. Ma non c’è un briciolo dell’ironia consapevole dei suoi film, non c’è niente di postmoderno, citazionista e divertito, non c’è la gioia di narrare di Tarantino, anzi! Nei film di Zahler c’è un’urgenza quasi sofferente di dover far vedere i percorsi infernali di questi uomini così retti. Contrariamente a Tarantino, Zahler sembra soffrire davvero per quel che infligge ai suoi protagonisti.

È un cinema senza donne questo, in cui le donne al massimo possono comportarsi come uomini, ma è anche un cinema di un rigore espressivo ammirevole, che della serie B ha soli i titoli (sempre così diretti ed esplicativi) e per il resto sembra un Michael Mann senza quel senso spirituale di destino incombente, un Carpenter senza il sollievo dell’ironia (scrive anche lui la sua musica). Per Zahler queste storie che divertono il suo pubblico sembrano un peso, la condanna dei suoi eroi giusti a tenere fede a se stessi e recarsi nel ventre del demonio ogni volta perché non possono esistere senza il loro rigore morale che li lega ad un mondo di violenza.

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